Giovanni Da Empoli

Mercante e Viaggiatore

di Emilio Mancini

 

Annuario VI e VII della Scuola Complementare

Leonardo da Vinci

di Empoli

a cura di Vittorio Fabiani

 

Fra le glorie cittadine più memorabili, accanto a nomi illustri nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, si distingue per singolarità e varietà d’imprese un celebre viaggiatore, al quale la nostra Terra dette – or sono quattro secoli e mezzo – il nome e gli antenati: Giovanni Da Empoli, navigatore ardimentoso, scrittore di non comune efficacia (1), soldato e mercante.

 


 1)Un passo di una sua relazione, col titolo Tra gli indiani , è riportato nell’Antologia Italica di G. MAZZONI e BIANCHI, (Firenze, Bemporad, 4° ediz. per le scuole classiche. Pag. 171).


 

Di questa nobile figura del prodigioso Rinascimento toscano mi è grato ravvivare il ricordo nell’animo dei miei concittadini, e specialmente dei giovani, ai quali mai invano si presentano le esemplari immagini abbellite dal fascino dell’ avventura e del valore.

La breve vita di Giovanni Da Empoli si svolge durante quel periodo in cui il Portogallo trasse dalla sua intensa attività marinaresca e mercantile un meraviglioso incremento di potenza e di gloria.

La meta cui tendeva con ogni sforzo il piccolo stato atlantico era di scoprire la via marittima alle Indie, di riallacciare per via di mare l’Europa alla vecchia Asia, di raggiungere e contendere agli Arabi l’agognato paese delle spezierie. Nel 1487 Bartolommeo Diaz doppiava il Capo di Buona Speranza; nel 1498 Vasco da Gama approdava a Calicut, sulle coste del Malabar.

Cinque anni dopo, quando il re Emanuele credette necessario mantenere nelle Indie un’armata e nominarvi un vicerè, Giovanni Da Empoli s’ imbarcò il 6 Aprile 1503 a Lisbona per il suo primo viaggio in Asia: egli è il primo fiorentino che si reca in quelle terre lontane dopo il ritorno di Vasco da Gama, non per portar guerra, ma per commerciare, per cambiare i panni di lana fabbricati in patria con oro, perle, avorio, droghe, pietre e legni preziosi.

Non aveva che venti anni: era nato a Firenze il 24 Ottobre 1483 di Lionardo da Empoli, primo figlio maschio dopo sei femmine (2).

Questa famiglia, che da qualche tempo aveva preso dimora in Firenze, aveva ottenuto la cittadinanza nel 1372 ed era stata ascritta a diverse arti, dei Merciai, dei Vaiai, degli Speziali, del Cambio; poi, abilitati agli uffici del Comune, alcuni dei Da Empoli furono dei Priori e, sotto il governo mediceo, del Consiglio dei Dugento e del Senato dei Quarantotto (3).

La giovinezza di Giovanni fiorì, mentre la passione mistica ed eroica di Girolamo Savonarola troncava in bocca alla paganeggiante Firenze il dolce canto carnascialesco del Magnifico Lorenzo. E il piccolo Giovanni crebbe buono e pio.

« Fu bene nutrito e allevato, – narra suo zio Girolamo, che settuagenario ne scrisse un’affettuosa biografia (4) – e naturalmente fu ben compressionato di corpo; non grasso, non magro; non grande, non piccolo; di bellezza assai conveniente; di natura sanguigno; allegro, none (non) stizzoso, non iracondo, ma piuttosto…. piacevole; dotato di buono ingegno, docile allo imparare: ed insino dall’età de’ sette anni aveva imparato assai bene a leggere il saltero, di poi le lettere, e così di mano in mano il Donatello (la grammatica latina) le regole e a fare de’ latini e pìstole, tantochè nel tempo di tredici o quattordici anni aveva imparato assai bene il latino. »

 


2) Che la data di nascita sia il 24, e non il 27, Ottobre, risulta dal registro dei battezzati in S. Giovanni, secondo la comunicazione di ENRICO MASINI, Per la biografia di G. d. E., pubblicata negli Atti dell’VIII Congresso Geografico Italiano, 1921, (Firenze, Alinari, Vol. II, pag. 278-80).

3) GIUSEPPE CANESTRINI, Intorno alle relazioni commerciali de’ Fiorentini coi Portoghesi avanti e dopo la scoperta del Capo di Buona Speranza (in Archivio Storico Italiano, 1846, appendice n. 13, pag. 106).

4) La « Vita di esso Giovanni da Empoli da che nacque a che morì », che giaceva inedita nella Magliabechiana, venne pubblicata prima da GIUSEPPE CANESTRINI e FILIPPO LUIGI POLIDORI nella Viola del Pensiero, Ricordo pel MDIIIXLII, miscellanea di Letteratura e Morale compilata da Silvio Giannini, anno III, Livorno, Tip. Sardi, 1841, pag. 103-132; poi nella citata appendice dell’Archivio Storico Italiano, insieme a lettere di Giovanni, illustrate da J. Gräberg di Hemsö; infine tra le biografie degli Empolesi illustri, raccolte dal prof Alfonso Monti e aggiunte alla Storia di Empoli di Luigi Lazzeri (Empoli, Monti, 1873).


 

L’anima di Giovanni si temprò al fuoco dell’eloquenza di fra Girolamo da Ferrara: non puerilità, non giochi, ma, in compagnia di altri giovanetti cresciuti all’ombra dell’austero domenicano, si dava attorno per in città togliendo carte e dadi e bruciando libri osceni:  « puossi dire che non fusse mai fanciullo »,  scrive il vecchio zio, che ci rac-conta come il buon nipote ed i suoi compagni « se avessero trovato qualcuna di queste giovani pompose, con istrascichi o con fogge disoneste, la salutavano con gentilezza, facendole una riprensione piacevole, dicendo:

Gentile donna, ricordatevi che voi avete a morire, e lasciare ogni pompa e delicatezza, e tutte coteste vanità;  con altre parole accomodate a simile opera, di modo che da una volta in là, se non per amore, per vergogna lasciavano buona parte di loro vanità ».

Si può immaginare che, se il piccolo Giovanni passeggiasse le vie a’ giorni nostri, strascichi ne troverebbe ben pochi, ma non gli mancherebbe la frequente opportunità di  «  riprensioni piacevoli  »,  non so se con quel  « grande frutto  » del tempo dei Piagnoni….

Quando San Marco fu invaso e il Savonarola con due suoi frati fu preso, Giovanni si trovava nel convento e non potendone uscire mentre ferveva la lotta, stette chiuso nella libreria a pregare con i novizi per tutta la notte. Nel combattuto chiostro si trovò pure, durante quel tumulto, un pittore valentissimo, ma di animo troppo timido, che, come narra il Vasari, fece voto  «  s’e’ campava di quella furia », di vestire il bianco saio dei predicatori: e fu fra Bartolommeo della Porta.

Messosi poi al banco paterno, che era posto al Canto alla Paglia, cioè all’angolo fra l’attuale Via de’ Cerretani e Borgo S. Lorenzo, il nostro Giovanni ben presto imparò a impratichirsi nell’arte del cambio e molto accrebbe le sue cognizioni durante il passaggio dei forestieri che andavano a Roma per il gran giubileo dell’anno 1500. Dedicatosi alla mercatura, a 18 anni e mezzo partì da Firenze e si recò a Bruges, nel Belgio.

Nel partire,  « chiedendo umilmente la benedizione, il padre gliela dette non senza tenerezza né lacrime », e siccome aveva compilato un libriccino con le più « belle cose » della Sacra Scrittura, glielo donò, «  ricordandogli che lo studiasse e che sempre in tutte le cose e faccende si mettesse innanzi il nome di Dio ».

Nel leggere tali parole Gino Capponi si domandava:

 «  E crederemo noi che le belle cose scritte di mano del padre non gli tornassero a mente ne’ pericoli delle navigazioni, e tra le stesse cupidità de’ traffici, e poi non lo confortassero nella morte solitaria? Tanto potevano quelle pratiche ispirate dallo schietto e naturale buon senso, che nel fanciullo guardava all’uomo futuro: laddove un gran numero degli educatori moderni, co’ frivoli raccontini e i drammi pimmei…., direbbesi quasi che si studino a mantenere l’uomo eternamente fanciullo » (5).

 


5) G. CAPPONI  Sull’Educazione, frammento inedito (1841). Lugano, Tip.della Svizzera Italiana, 1845, paragr. 54.


 

Partì dunque il nostro Giovanni per il Belgio il 14 Agosto 1502. Là fu dalla Società di Antonio e Filippo Gualterotti e Girolamo Frescobaldi scelto come commesso viaggiatore per andare a Calicut, nelle Indie; perciò si trasferì nel dicembre dello stesso anno a Lisbona, Ia città che come distributrice all’ Europa dei prodotti orientali, stava conquistando quel primato che sino allora era Ia ricchezza dei porti italiani.

Per opera di messer Giovan Francesco degli Affetati, gran mercante italiano, partecipò ad una spedizione di quattro navi armate da più mercanti, alla volta di Calcutta: per conto dei fiorentini Marchionni, come abbiamo detto, il 6 Aprile 1503 partì con l’armata condotta da Alfonso di Albuquerque e composta di quattro navi: la S. Giacomo, la S. Spirito, Ia S. Cristoforo, e la Catterina Dies.

Gli storici non fanno menzione di questa prima partenza di Giovanni, forse perché, osserva il Gräberg, egli in quel primo viaggio era impiegato come fattore o sopraccarico in un vascello armato, ma non per conto del re, bensì per conto di armatori privati.

Giunti al Capo Verde, invece di procedere lungo la costa di Guinea, per evitare le difficoltà si spinsero al largo, avvistando dopo ventotto giorni l’isola dell’ Ascensione. Ma poiché di questo viaggio si conserva Ia relazione nella raccolta del Ramusio (6),

 


6) B. RAMUSIO, Delle Navigationi et viaggi (Venetia, MDCVI, appresso i Giunti, vol.I. pag 145 sg.). La prima edizione è del 1550.


 

sarà meglio leggere le precise parole del nostro navigatore:

Detta isola era di nullo valore per quanto potemo comprendere, e da essa partiti, navigando pure in detta volta ci trovammo tanto avanti, per mezzo la terra della Vera Croce, over del Bresil così nominata, altre volte discoperta per Amerigo Vespucci, nella qual si fa buona somma di cassia e di verzino… Le genti d’essa sono di buona forma e vanno ignudi, così huomini come donne, senza coprire niente, sforacchiansi così in pelle insino alla cintura, e s’addornano di penne verdi di pappagalli e le loro labbra sono piene d’ossa di pesce. Le lor arme sono come dardi, le punte coperte di dette ossa di pesce; fede nessuna non hanno, salvo epicurea; mangiano per comune uso carni  umane: le quali seccano al  fumo, come noi la carne di porco.

Voltisi poi al Capo di Buona Speranza, dopo un’ « horribile fortuna per più volte ad arbor secco senza un palmo di vela », durante il quale è perduta la Catterina Dies, finalmente il 6 di Luglio guadagnano l’estrema punta meridionale del continente africano; quivi entrano in un porto vicino, chiamato Acqua di S. Biagio, perché scoperto nel giorno del santo; descritta la selvaggia popolazione del luogo, proseguono verso l’India, giungendo a Cananor, sulla costa del Malabar, e di qui a Cocchin, posto più a mezzogiorno. Ma essendovi arrivate prim le altre navi, toccò a queste il carico delle spezie, e però, Giovanni con alcuni altri si staccò dalla spedizione ed andò altre 250 miglia, in una terra chiamata Colon,  «  nella quale non era suto giamai persona a discoprirla ». Ivi, dopo l’infuriare di una nuova tempesta, il Capitano lo mandò a terra. Ma ascoltiamo quello che ci racconta il nostro  giovane viaggiatore:

Armato il battello, et colle sue trombe et cerimonie, mi messono in terra, dove trovammo essere ben 400 huomini della terra, aspettandoci, per vederci, sì li battelli come noi altri, parendo lor mirabil cosa la gente nostra, et giunti a loro facemmo lor dire come eravamo cristiani dal nostro turcimanno, et come tal cosa intesono ne presono gran piacere, dicendo loro essere alsì cristiani, li quali eran rimasti fin dal tempo di San Tommaso, et chiamarsi per nome cristiani si donne come huomini come noi, et d’essa sorte sono numero tremila, poco più o meno, et subito ci menarono a vedere una chiesa fatta al modo nostro, mediocre, con santi e croce, intitolata Santa Maria, e al circuito d’essa habitano e’ detti cristiani chiamati Nazzareni, et qui in detta chiesa ci appresentorno per istanza, di poi fummo al Re, chiamato Nambiadora, el quale con assai letizia et amore ci ricevette, et domandatoli se lui aveva el modo a darci spetie per la carica di tre navi, rispose che in venti dì s’obbligava caricarcele in fondo d’ogni sorte di spetie, et tornatoci a nave con tale risposta al capitano, facemmo gran festa, et cominciato a conciar le navi,  cominciammo a caricare, e caricammo tanto quanto il nostro appetito desiderava, et tanto in fondo che dicemmo non più.

Di là Giovanni tornò a Lisbona con guadagni ed onori il 16 Settembre 1504, poi a Bruges presso i suoi principali e infine il 22 Ottobre 1506 a Firenze, dove strinse amicizia col Gonfaloniere Piero Soderini.

Tornato nel Febbraio del 1507 a Bruges e subito di là trasferitosi a Lisbona presso gli Affetati, essendo loro dal Re ordinato di armare quattro navi pel viaggio di Malacca, furono mandati con esse come fattori o governatori il nostro Giovanni e un altro fiorentino, Leonardo Nardi, e per capitano della flotta Diego Mendez de Vasconcellos. Questo secondo viaggio (1509-1514) Giovanni descrisse al padre suo in una lunga lettera che venne pubblicata nel 1846 insieme ad altre lettere di lui ed alla sua vita scritta, come dissi, dallo zio Girolamo (7).

 


7) Lettere di G. da a Leonardo suo padre intorno al Viaggio da lui fatto a Malacca e frammenti di altre lettere del medesimo aggiuntavi la vita di esso Giovanni scritta da Girolamo da Empoli suo zio (in Archivio Storico Italiano, appendice n.13)


 

La nuova spedizione, salpata nel Marzo del 1509, doveva agire indipendentemente dall’Albuquerque, capitano generale dei Portoghesi in Asia.

Giunti i nostri a Goa, non trovarono l’Albuquerque molto ben disposto verso di loro. Il viceré finse di rispettare l’ordine reale, ma fece di tutto per impedire il viaggio a Malacca; anzi, arrestato il Vasconcellos, mosse egli stesso verso quella penisola.

Varie volte Giovanni ebbe incarico di scendere a terra per negoziare con quei capi barbari a nome del Re del Portogallo e trattare di mercanzie.

Ma la città di Malacca dovette essere presa di viva forza. Ecco la descrizione dell’assalto ordinato dall’Albuquerque, dopo che tutta la sua gente si fu confessata e comunicata:

 

Noi eravamo circa 1500 uomini; avamo e’ Cini in aiuto, che erano circa 400; e il Principe di Zamatora con altrettanti: e così demmo la battaglia il giorno dello Apostolo Santo Jacopo, padrone ed intercessore di Spagna.

E così, davanti giorno, dato l’assalto e montati sullo steccato, dove si combatté assai e si difesono gentilmente, e massime con elefanti armati, in uno dei quali era il figliuolo del re: facevangli mucchiare,  che era cosa da spaurire il mondo.

Ammazzammone uno con l’artiglieria, ferimmo il principe, facemmo grandissima uccisione: e, come miracolosamente nostro Signore sempre dà vittoria a’ sua Cristiani contro agli infedeli, sendo nostro capitano l’Apostolo San Jacopo con poca gente che eravamo, si superò la grandissima moltitudine di nimici, che sono valentissimi uomini e bene istruiti nella guerra, abbondanti d’ogni generazione d’arme, molto buone.

E così quello stesso giorno guadagnammo la città, e rubammola in molta parte….

 

Il principe di Zamatora, che aveva aiutato i Portoghesi a conquistare la città per la promessa di esser rimesso sul trono, « non fu mai rivisto ».

Essi saputo di poi – prosegue il nostro viaggiatore – che il Generale lo fece affondare e tolsegli e’ sua denari, e dette fama come era fuggito: che non sono Ie prime che egli ha fatto e fa giornalmente.

Come si vede, questo ed altri passi della relazione gettano una non simpatica luce su quell’Alfonso d’Albuquerque, che pure è considerato uno dei più illustri conquistatori portoghesi, anzi come colui che, distrutta la concorrenza araba, estese sui mari d’ Oriente quella supremazia lusitana, che vi doveva durare per un secolo.

Da Malacca il fiorentino tornò a Coccin, nell’ India, ma poco dopo il viceré gli ordinò di tornare indietro per ricondurre tre navi ivi rimaste. Giovanni obbedì, respinse un assalto di genti di Giava che tentavano di riporre sul  trono l’espulso re malese, frenò un ammutinamento di mori prigionieri, infine raggiunse Goa.

Il viceré voleva mandarlo a governare Malacca, ma Giovanni preferì fare segretamente ritorno a Lisbona, dove gettò l’ancora nell’ Agosto del 1514.

Dopo questi due viaggi, compiuti con gran soddisfazione de’ suoi committenti, i Frescobaldi, i Gualtierotti, i Marchionni, Giovanni fu incaricato dal Re di governare la fattoria o colonia di Sumatra, e se ivi non fosse proficuo il commercio, di recarsi in Cina, con facoltà di trattare a nome del Re per entrare nel porto di Canton e aprire al Portogallo anche il commercio cinese.

Salpò per la terza ed ultima volta dalla foce del Tago il 5 Aprile 1515, avendo al suo comando tre navi e conducendo seco Alessandro Galli detto Torello, casentinese, e Benedetto Pucci, nipote di quel cardinale Antonio Pucci, che allora si trovava nunzio pontificio a Lisbona e che fu amicissimo del nostro Giovanni e primo proposto della Collegiata di Empoli (8).

Alla vigilia della partenza, sulla nave Spera volle dettare quel « bellissimo testamento » accennato dallo zio biograto e pubblicato nel 1894, col quale lasciava erede suo padre Lionardo ed in sua assenza lo zio Girolamo: a quelle pagine rimando coloro che vogliano conoscere le estreme volontà del nostro navigatore (9).

 


8) Delle relazioni che il nostro Giovanni, come empolese, poté avere con la famiglia de’ Pucci, tratta a lungo l’abate Follini, accademico della Crusca. Cfr. Atti dell’Accademia, 1819, t. II, pag. 232.

9)ALCESTE GIORGETTI, Nuovi documenti su Giovanni da Empoli, (in Archivio Stor. Italiano, serie V, t. XIV, p. 322).


 

In questo ultimo viaggio, egli eseguì gli ordini del Re come intendente generale di tutta la squadra. Riferisce il De Barros, storico portoghese, che messer Giovanni, approdato a Nantò (città non bene identificata), si presentò con gran pompa al Viceré, accolto con feste sia dagli indigeni sia dai portoghesi.

Ma per il clima avverso, nel porto di Sin-gam-hien, presso Macao, sopravvenne sulle tre navi che aveva un’ epidemia di flusso e dissenteria, di cui morirono circa 70 uomini:

«  e così, come piacque a Dio, morì lui con i due fiorentini », che aveva menati seco, e due dei tre scrivani, sul principio del 1518. « Morì come buono cristiano, con tutti i sacramenti e con buono intelletto ».

Non aveva compiuti i trentacinque anni. Tornarono però in seguito in Europa le sue scritture in perfetta regola, con lo scrivano superstite, e il De Barros ci informa che Giovanni fu compianto da tutti coloro che l’avevano conosciuto.

Di questo terzo viaggio ci restano alcune lettere di notevole interesse. Noi da queste e dalla Relazione del viaggio di Malacca spigoleremo qualche tratto più caratteristico. Scrivendo al padre, dice dell’ India:

Sono cose per chi l’ ha viste da non crederle; pensate a chi non l’ha viste!…. Spero, come abbia agio e chi mi scriva, farne un piccolo sunto di tutto, che sarà per dare diletto a voi e alla brigata di casa e a’ mia discendenti, se per caso nasceranno, posto che molto tardi trovi la sposa; e massime che questo viaggio m’ha fatto e fa parere vecchio…. Tuttavolta non mi sento sì vecchio d’animo, che ancora non intraprendessi dare una vista sino alla Cina: ma sarà quando a Dio e a voi piacerà…

In una lettera a Lorenzo de’ Medici, duca d’ Urbino, descrive un uccello molto strano:

Io mando al sommo Pontefice, per una nave che viene a Pisa, un ucello morto, molto bellissimo, che io ho portato di Malacca e di là viene di più longie paese, che nuovamente è suto discoperto, dove nascono i gherofani. L’ucello non tiene pié, sta sempre nell’aere, senza tochare terra e d’aere si nutrisce et in aere gienera li figlioli sopra il codrione, secondo s’è auto notizia da quelli della terra. (10)

 Interessantissima è una lettera scritta dal suo compagno Raffaello Galli ad un suo zio prima d’imbarcarsi per il viaggio che non ebbe ritorno:

Entendete bene che el meno che staremo saranno sei o sette anni o più, che meno non può durare la sua fattoria: sì che considerate quanta sarà la sua ricchezza, che ora è richo: pensate a sua tornata che Dio… diagli grazia che truovi quel suo onorato e buon padre che lo vedessi in tanto onore e reputazione e utile … ché tutto fa per acquistare onore e fama e pregato da un tal Re … (11)

Nel suo ultimo viaggio per acquistare onore e fama, messer Giovanni da Empoli incontrò la morte. Egli merita di essere annoverato fra i primi nella serie gloriosa di quegli arditi esploratori  di terre e di mari, i quali nacquero in Toscana nel ‘400 e nel ‘500. Il Malfatti lo chiamò  « prossimo di merito al Vespucci, ma meno fortunato di lui … ed in procinto di rannodare per mare la Cina all’Europa », quando lo colse la morte acerbissima (12).

Come il Vespucci, egli morì in servigio del Portogallo.

Benché Giovanni Da Empoli fosse, scrisse il De Gubernatis (13),   « essenzialmente soldato, marinaio e uomo d’affari  » né avesse l’acutezza di un Filippo Sassetti, tuttavia con le sue navigazioni, oltre all’onore e all’utile che apportò a sé e alla patria aprendo nuove vie al commercio, contribuì anche ad accrescere le nozioni geografiche d’allora sulle Indie Orientali. Ingegno versatile e profondo vede in lui Pietro Amat di San Filippo, che lo giudica anche esatto osservatore dei costumi, del clima, della religione e dell’essere dei popoli visitati (14).

 


10) GIORGETTI, Lettere di Giovanni da Empoli e di Raffaello Galli (in Archivio Stor.Italiano, serie IV, t. VI, 1880, pagg.165 sgg.)

11) Ibidem, pag.169.

12) BARTOLOMEO MALFATTI, Della parte che ebbero i Toscani all’incremento del sapere geografico (in Annuario del R.Istituto di Studi Superiori in Firenze per l’anno accademico 1879-80. Firenze, Succ. Le Monnier, 1879, pag.32)

13) DE GUBERNATIS, Storia de’viaggiatori italiani nelle Indie orientali (Livorno, F. Vigo, 1875, pag.16-17 e 112-5)

14) AMAT DI S.FILIPPO, Biografie dei viaggiatori italiano e bibliografia delle loro opere, Roma, 1882, t. I.


 

A noi piace immaginarlo quale ce lo dipinge il buon zio Girolamo quando, con la baldanza de’ suoi ventitré  anni, nella saletta di Palazzo  della Signoria, ove dava udienza il gonfaloniere Pier Soderini, dinanzi ad un eletto uditorio, dette notizia del suo primo viaggio:

E forse che Giovanni si sbigottì alla presenza di tanti cittadini? Anzi si cominciò, stando sempre ritto, da che lui partì da Lisbona per detto viaggio, insino a che lui fece ritorno, contando tutte le cose tritamente per ordine, porto per porto e terra per terra; e che gente e che legge e che costumi; e che mercanzie e pesi e misure e che monete e dove nasce il pepe, gherofani, cannella e altre droghe; e dove si pescano le perle e dove nascono i rubini e diamanti; e altre belle cose, che parve a tutti una mirabile cosa recitare a mente tante cose: pensa dovette durare due ore a raccontarle! Di poi, avendo finito il ragionare, e fatte le debite riverenze e raccomandazioni, pigliando licenza, detto Gonfaloniere gli fece molte offerte; di poi gli disse che aveva caro d’avere tutto per iscritto.

Il che Giovanni fece, ma questa relazione disgraziatamente non è giunta sino a noi, se non nel frammento riferito dal Ramusio.

Pur in mezzo ai traffici, egli si mostra più d’una volta memore di Dante. In una sua lettera diretta ad Antonio Pucci, vescovo di Pistoia e già ricordato come proposto di Empoli e nunzio di papa Leone X alla corte portoghese, si legge:

Io sono di ferma opinione che Dante, dove nel primo canto del Purgatorio, dice che vide quattro stelle dell’ altro polo, voglia dire queste le quali prima si mostrorno, che sono dua della Croce e dua che stanno sopra il capo di detta Croce….

E tale opinione, che pare indipendente da quella già manifestata fin dal 1500 dal Vespucci a Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici, ha dato modo a vari commentatori di disquisire intorno alle allegoriche stelle che fregiano di lume la veneranda faccia del dantesco Catone Uticense (15).

Un erudito quanto mordace medico fiorentino del Seicento, Giovanni Cinelli, nella sua Storia inedita degli scrittori fiorentini (t. I, 735), diceva a proposito del nostro viaggiatore: « lo mi stupisco che qualche barbalacchio non si faccia a questo onorato uomo parente, il quale andò molto peregrinando e scrisse il viaggio fatto in India…»

Questi barbalacchi, come abbiamo veduto, vollero essere il Polidori e il Canestrini, primi editori della sua vita e de’ suoi viaggi, il bibliotecario della Palatina conte Jacopo Gräberg di Hemsö, dottissimo illustratore del viaggio a Malacca, il cav. Alceste Giorgetti, che ne mise in luce ed illustrò nuovi documenti; ho infine voluto essere io, ultimo e vero barbalacchio, a rinverdire il ricordo del valore e delle imprese di Giovanni da Empoli, fibra robusta temprata alle tempeste di tre oceani, ed insieme sottile ingegno di fiorentino diplomatico, navigatore che tre volte salpò da Lisbona verso gl’incogniti lidi del Sole Levante, mercante in Fiandra, in India, in Cina, scrittore di nativa e fresca semplicità, capitano di un re straniero, esemplare splendido, in ogni aspetto, di quella duttile stirpe toscana e italiana, che, prima che l’Italia fosse, disseminò per l’ingrato mondo il tesoro del suo intelletto e del suo coraggio.

 

EMILIO MANCINI

Livorno, Giugno 1929 (VII).

 


15) VINCENZIO FOLLINI. Sopra alcuni versi di Dante del Canto I del  «    Purgatorio  »  (in Atti dell’I. e R. Accademia della Crusca, 1819, t. II, pag. 232-45; detta lezione fu di nuovo pubblicata nel 1846 nell’Archivio Stor. Italiano, nella citata appendice n.13).

Sulla questione dantesca cfr. i Rapporti ed Elogi detti da  G. B. Zannoni segretario dell’Acc. della Crusca, Firenze, 1828, pag. 7, e FERRAZZI, Enciclopedia Dantesca, vol. II, pag. 143, 145-6.


 

Giovanni da Empoli è ricordato tra gli uomini illustri di questa Terra dal Manni ne’ suoi Sigilli (t. XV, pag. 132) e ne parlarono ii Tiraboschi (t. II, parte 1, pag. 266). Gaetano Branca, Storia dei viaggiatori italiani (Torino, Paravia, 1873. pag.233) e P. Mormino Arcoleo, in un articolo del quotidiano romano Il Messaggero del 28 Maggio 1929, poi ripubblicato nel genovese Secolo XIX, del 31 Maggio 1929.

Io tratteggiai già questa simpatica figura in un breve discorso, che venne stampato nel settimanale empolese II Piccolo dal 23 Settembre 1923. Ultimamente si è annunziato che nella collezione di  « Viaggi e scoperte di navigatori ed esploratori italiani  »  della Casa Editrice Alpes di Milano compariranno i Viaggi in Oriente di Andrea Corsali e Giovanni da Empoli. Il che contribuirà certamente a diffondere la fama del nostro viaggiatore.

Nel 1898, in occasione delle onoranze fiorentine a P. Toscanelli e ad A. Vespucci, lo stemma e il nome di lui furono posti in un’artistica targa collocata nella navata di sinistra del tempio di Santa Croce: vi si leggono accanto i nomi di Giovanni da Verrazzano, Francesco Carletti, Filippo Sassetti, Andrea Corsali, Benedetto Dei, Giovanni Marignolli e Francesco Balducci Pegolotti. Lo stemma del Nostro è costituito da una scimmia rampante, d’argento in campo azzurro, che tiene nelle zampe anteriori un giglio rosso.

L’incisione che adorna questo scritto è stata ritratta da un vecchio numero del Secolo di Milano (20-21 Dicembre 1883), per cortese cura del cav. dott. mons. Gennaro Bucchi, al quale rivolgo vivi ringraziamenti.